Con la scoperta che anche Papa Ratzinger mangia solo prodotti provenienti dai campi e dagli allevamenti di Castelgandolfo, la lunga querelle sul «km zero» è tornata alla ribalta fra favorevoli e contrari. Si potrebbe sintetizzare in maniera shakespeariana: km zero sì, km zero no?!

Già, perché leggendo e rileggendo articoli, interviste, opinioni, riportate dai principali media italiani si rischia di cadere vittime di un vero e proprio rompicapo senza uscita.

 

Per i sostenitori (peraltro in continua crescita) della filiera corta, infatti, il km zero rappresenta una modalità di acquisto che non solo garantisce alti standard di qualità del cibo e mantiene vivo il legame tra un territorio e i consumatori, ma contribuisce alla diminuzione dell’inquinamento ambientale, all’abbattimento di molti costi e alla sopravvivenza delle piccole imprese agroalimentari che possono così trovare un canale di vendita proprio.

 

C’è anche chi, però, vede il km zero come un mero fenomeno di costume piuttosto che la soluzione ai reali problemi economici del comparto, e continua a ribadire con fermezza che le strade da percorrere per costruire un futuro alimentare sono ben diverse.

 

Una cosa mi sento di affermare: il km zero ha avuto il merito di riuscire a «brandizzare» un’idea attraverso una sigla semplice e di facile intuizione; ha dato sostanza, in termini di marketing, alla nostra agricoltura di qualità. Un punto di partenza quindi per far capire a tutti i nostri bravi agricoltori che senza il supporto della comunicazione è difficile stare sui mercati moderni. Nessun prodotto, è bene ricordarlo, si vende da solo, per quanto ottimo ed eccellente possa essere. Ma di qui a pensare che tutto questo possa risolvere i problemi della nostra agricoltura ci sono appunto molti km da fare!