Se obiettivo di Alberto Grandi con il suo libro “Denominazione di origine inventata”, uscito da poco per le stampe di Mondadori, era quello di sostenere i meriti della nostra industria alimentare nella creazione del mito gastronomico italiano nel mondo, non c’era bisogno di scagliarsi contro i marchi d’origine né contro il marketing che, secondo Grandi, è responsabile della grande falsificazione di cui essi sarebbero portatori. Non voglio mettermi sullo stesso terreno dello storico economico, perché non lo sono, anche se ho qualche dubbio sulla storia come ce la racconta Grandi, ma semplicemente dello studioso di economia. Chi mi legge sull’Informatore Agrario sa quanto sono critico sul fiorire di marchi collettivi di tutti i tipi: comunali, regionali e anche comunitari, e sull’ingenuità di considerarli strumenti certi di successo sul mercato per i prodotti che se ne fregiano. Parlando di un caso di marketing conosciutissimo: è la marca “Melinda” e non il marchio “DOP della Val di Non” che garantisce il successo delle mele di quella valle. Critico sono anche sulla mania di obbligare a mettere dappertutto le etichette “Made in Italy” per distinguere l’origine della materia prima, in particolare sulla nostra pasta, che è buona proprio perché fatta con miscele di grani di qualità provenienti anche dall’estero e lavorata con le tecniche della nostra industria. Ma uno studioso di economia, anche di storia dell’economia, non poteva dimenticare che fin dagli anni ‘60 la storia dell’agricoltura e dell’agroalimentare italiano sono legati a quelli della PAC (Politica agricola comune) e alla nostra partecipazione al Mercato unico europeo. Grandi ne fa un breve cenno quando richiama alcuni aspetti dell’organizzazione comune del settore lattierocaseario degli anni 60’ e’70 che, secondo lui avrebbero favorito quello che chiama “Lo sbracco dei Mille”, che non sono i garibaldini, ma l’apparire di numerosi marchi di formaggi industriali e lo sviluppo della produzione di quelli a denominazione per collocare le eccedenze di latte. Un altro breve cenno alla PAC, Grandi lo fa quando parla delle politiche di sostegno del reddito degli olivicoltori, in particolare quando le integrazioni al reddito furono pesantemente ridotte dalla riforma MacSharry, concludendo che i sussidi alla produzione sono stati del tutto irrilevanti per le grandi marche nazionali, mentre il loro ridimensionamento scatenò la creazione di nuovi oli DOP e IGP, spesso “…inventati di sana pianta..”. Ognuno ha diritto di pensarla come vuole, ma un docente universitario, per di più uno storico economico, avrebbe dovuto inquadrare correttamente la creazione dei marchi DOP (Denominazione origine protetta), IGP (Indicazione geografica protetta) e STG (Specialità tradizionale garantita) nell’ambito della politica della Comunità Europea, diventata poi Unione Europea. Ed è, appunto con l’Atto Unico del 1 febbraio 1986 che viene creato il Mercato interno o Mercato unico,che sancisce la libera circolazione delle merci eliminando tutte le barriere tra gli Stati membri. Atto Unico confermato poi dal Trattato di Maastricht del 1992. La creazione del Mercato unico rendeva,infatti, necessario prendere dei provvedimenti, il Reg. CE n. 2081/92, citato da Grandi solo nel Glossario, per evitare che si compisse una grave ingiustizia, vale a dire che i prodotti non tutelati dalla proprietà industriale perché frutto della storia e della tradizione di piccole o grandi comunità, spesso essenziali per l’economia del territorio dove sono insediate, venissero a loro sottratti o fossero oggetto di concorrenza sleale. Ecco allora la nascita delle denominazioni tutelate dall’ Unione Europea (UE) non solo nell’interesse dei produttori, ma anche dei consumatori perché ciascuna denominazione deve rispettare i dettami di un disciplinare di produzione che fissa origine delle materie prime e modalità di produzione. In fin dei conti, l’Unione Europea non ha fatto altro che attenersi a impegni che provenivano da accordi internazionali sulle IG (Indicazioni geografiche) già sottoscritti fin dall’ottocento: quello di Madrid (1891) , quello di Lisbona (1958) e l’accordo TRIPS dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (1994), che miravano a tutelare i prodotti la cui qualità, reputazione o altre caratteristiche specifiche fossero attribuibili essenzialmente alla loro origine geografica. Sono d’accordo con Grandi che in molti casi si è esagerato nel cercare le radici storiche di alcuni prodotti o nel voler collocarli in territori amministrativamente delimitati, ma non credo che tutti coloro che si sono preoccupati di tutelare con un marchio collettivo di natura pubblica un prodotto generato dal “savoir faire” e dal “terroir”, come dicono i francesi, di una comunità e di un territorio siano da dileggiare come ha fatto, invece, Alberto Grandi. Bisogna poi stare molto attenti quando si scrive un libro che ha l’ambizione di “..ribaltare completamente un paradigma storico consolidato”. Bisogna documentarsi molto bene, perché un errore può far mettere in dubbio tutto l’impianto del lavoro. Purtroppo Grandi è caduto, invece, in un errore che fa dubitare che si sia documentato sufficientemente sui casi di denominazione su cui concentra le sue critiche. Nel capitolo “Prosciutto crudo da boomerang” scrive che gli “…allevatori del Friuli si rifiutano di conferire le cosce dei loro maiali al Consorzio del Prosciutto di San Daniele …”, confondendo così il Consorzio di tutela, che per legge non può commercializzare il prodotto dei soci, con un Consorzio di tipo cooperativo. Nemmeno può scrivere che “…una parte delle cosce con cui si fa il San Daniele provengono da allevamenti non italiani….”, perché questo sarebbe una grave violazione del disciplinare o una diffamazione di cui qualcuno potrebbe chiedergli conto.