Alzarsi la mattina ed iniziare a sparare contro. In Italia quello di delegittimare tutto e tutti è diventato uno sport nazionale, sulla scia della moda lanciata in politica dal Movimento 5 Stelle. Ieri mattina è stata la volta di Carlo Petrini che  nel suo editoriale pubblicato da Repubblica, ha messo in dubbio la bontà del sistema agroalimentare di qualità certificata italiana. Del resto, la sua avversità alle DOP e IGP è storica ed evidente; Slow Food lanciò infatti una sorta di sistema alternativo, quello dei Presidi, che di fatto avevano l’obiettivo di “fare concorrenza” alle Denominazioni riconosciute a livello europeo. Come dire le associazioni private sono più credibili dello Stato ?


I casi citati da Petrini, ovvero Piadina Romagnola IGP e Bitto DOP, sono innanzitutto elementi isolati e varrebbe la pena spendere del tempo per affrontare la polemica con meno romanticismo e con più senso della realtà. L’élitarismo gastronomico, portato come baluardo alla difesa dell’autenticità, è anacronistico per mille ragioni, in primis perché perfino gli artigiani più scrupolosi, anche volendolo, non possono rispettare alla lettera l’originalità della tradizione in quanto sia le materie prime, che i macchinari e le condizioni ambientali sono fortemente cambiati rispetto al passato. Ma il motivo più profondo è che la vera tradizione risiede nel cambiamento. L’Italia ha saputo vincere la sfida dei tempi perché è stata in grado di innovare la tradizione, riuscendo a rendere coerente il proprio background esperienziale agroalimentare attraverso un continuo ammodernamento. Il Made in Italy è grande perché il sistema agricolo italiano è fatto di professionisti seri al passo con i tempi e le imprese lo sono altrettanto. Senza il rinnovamento anche quel patrimonio enogastronomico di cui tutti noi siamo orgogliosi di vantarci avrebbe finito per languire ed esaurirsi in una sorta di cristallizzazione da museo.

 

Inoltre, come ci dovrebbe ricordare l’Expo milanese, oggi il grande tema, è “nutrire il pianeta”, creare una “democrazia della qualità” che tenga conto della necessità di perseguire una sovranità alimentare: non si può più, in un mondo in cui comincia a esserci carenza di materia prima agricola, accettare di poter scendere sotto certi livelli di dipendenza alimentare. L’agricoltura non può essere ridotta alla sola questione della conservazione, deve restare un mestiere produttivo a servizio della comunità.

 

A Petrini non sarà sfuggito, ad esempio, che le cantine italiane, quelle che producono eccellenze del comparto vitivinicolo (le DOP e IGP del vino),  portano con sé un processo di industrializzazione positiva che è stato il vero veicolo dell’innalzamento della qualità e della sicurezza. Non ci sono più gli strumenti di una volta (credo con grande dispiacere di Petrini), ma attrezzature che hanno reso il nostro vino ad Indicazione Geografica migliore ed il più apprezzato nel mondo.

 

Può essere che in alcuni degli oltre  260 prodotti ad oggi registrati il processo di riconoscimento della denominazione abbia riscontrato qualche criticità, ma se penso ai tanti esempi (Parmigiano Reggiano DOP, Grana Padano ecc.) in cui questo sistema ha significato per il nostro Paese qualità, lavoro e cultura, le critiche che fanno tabula rasa di tutto mi appaiono a dir poco ingenerose.

 

Comunque i numeri del settore parlano da soli. I quasi 7 miliardi di fatturato (dati Ismea-Qualivita) e le circa 80.000 aziende che fanno parte attiva di questo circuito possono testimoniare non solo un valore diretto delle DO, ma anche un valore aggiunto tangibile che possiamo definire sinteticamente in cinque punti: gamma di prodotti ampia ed unica al mondo; capacità di standard di sicurezza; tradizione della Dieta Mediterranea; disponibilità di tecnologie e know how di processi agroindustriali; forte legame con il territorio.

 

Non si può inoltre nascondere un fatto che lo strumento dei marchi geografici DOP IGP è stato per molti territori, non solo una difesa attiva del patrimonio ma un vero e proprio strumento di sviluppo rurale che ha permesso salvare anche pezzi di agricoltura italiana che sarebbero scomparsi; basta andare nell’Appenino per vedere come l’ agricoltura di mezza montagna oggi riesce a sopravvivere grazie al Parmigiano Reggiano DOP.

 

Ma poi, alla fine di tutto questo romanticismo gastronomico, simili aut aut (“o la tradizione o la morte”) diventano un vero ostacolo nel pratico, quando cioè la qualità, il prezzo, la quantità, i processi devono quadrare all’interno degli schemi commerciali e produttivi. Su questi temi Carlo Petrini potrebbe forse documentarsi con l’amico Oscar Farinetti, che è un ottimo imprenditore.