La Parmalat, risanata e rinvigorita da quel genio aretino di Bondi è sicuramente una delle ultime aziende agroalimentari italiane di rilievo internazionale che è riuscita a promuovere l’immagine del Paese in tutto il mondo; il 78% del fatturato viene sviluppato nei mercati esteri. Parallelamente a Parmalat, in questi anni il timone del Made in Italy all’estero è stato tenuto in mano anche dai consorzi di tutela italiani e da qualche chef illuminato. Nomi come Stefano Berni del Grana Padano, Giuseppe Liberatore del Chianti Classico, Fontana del Gorgonzola, Fanti del Prosciutto di Parma e altri hanno avuto l’onore, e l’onere, di mantenere a galla la filiera agroalimentare italiana in un momento di difficoltà; la crisi, il continuo avvicendarsi dei ministri agricoli, la frammentazione del comparto produttivo e una scarsa tutela giuridica internazionale sui prodotti, per citarne alcune. Che ci possano essere sinergie ancora da sviluppare fra Parmalat e il comparto agroalimentare italiano è scontato ed è per questo che sarebbe un danno enorme se fosse ceduta ai cugini francesi. Non è una novità che aziende italiane prendano strade straniere; Gucci nella moda, il business del caffè in mano agli svizzeri di Nespresso, la Pizza di dominio dell’americana Pizza Hut e infine la Fiat che per diventare «Made in Italy» è costretta ad andare in USA. Paradossi che evidenziano una criticità sia della governance politica, sia della governance imprenditoriale. Due debolezze croniche che si sorreggono a vicenda con un legame indissolubile. Non c’è quindi da meravigliarsi che dopo il famoso fax di Tonna, arrivino i francesi a scipparsi la Parmalat per farci mangiare Camembert al posto del Parmigiano!