È finito il tempo in cui era considerato solo un settore di nicchia. Quello delle  Indicazioni Geografiche (IG) è ormai un vero e proprio  comparto produttivo, con caratteristiche e numeri importanti.
I dati dello studio reso noto dalla Commissione Europea sul valore delle indicazioni geografiche pubblicati in questi giorni parlano di un comparto che vale  54 miliardi (i dati che si riferiscono ai dati produttivi 2010) e prendono in considerazione 2769 denominazioni di origine riconosciute complessivamente, di cui 872 prodotti agroalimentari, 1560 vini e 337 spiriti. Il valore complessivo è costituito da 30 miliardi provenienti dai vini, 16 miliardi dai prodotti agroalimentari e 8 miliardi dagli spiriti. Lo studio evidenzia inoltre che il 60% delle vendite di prodotti con indicazione geografica avviene nei Paesi di origine, il 20% in altri Paesi della UE, mentre un altro 20% viene esportato nei Paesi terzi. Le esportazioni extra-Ue valgono circa 11.5 miliardi di euro e sono destinate principalmente agli Stati Uniti (30%). L’ Italia, con un valore complessivo di 12 miliardi di euro, generato nel 2010 da 753 denominazioni riconosciute – di cui 193 prodotti del settore agroalimentare, 521 vini e 39 spiriti – si piazza al secondo posto nella graduatoria, preceduta solo dalla Francia che, con 677 prodotti, genera un valore di oltre 20 miliardi di euro. Dopo l’Italia, seguono Germania e Spagna.

Il tema delle Indicazioni Geografiche nel settore agroalimentare – il riferimento è a tutti  quei prodotti la cui  reputazione e  qualità dipendono da uno specifico territorio – è oggetto di interesse da parte del sistema economico internazionale sin dal 1883, quando se ne parlò per la prima volta in occasione della Convenzione di Parigi sulla proprietà intellettuale. Ma ci sono sempre state visioni contrapposte rispetto alla   validità delle Indicazioni geografiche. Un primo fronte di  nazioni anglosassoni, prevalentemente Stati Uniti e Inghilterra,  ha  da sempre osteggiato il sistema delle IG, perché ritenuto protezionistico  e di ostacolo al libero scambio fra i Paesi. Un secondo schieramento, di matrice mediterranea, capeggiato in primis da Francia, Italia e Spagna – ma che con il passare del tempo ha trovato nuovi alleati in quei Paesi dell’Est europeo  – forte di una solida tradizione  agricola e ambientale da difendere sui mercati, si è costantemente impegnato nella difesa delle denominazioni di Origine. Poi una terza fazione trasversale,  che fa riferimento alle associazioni dei “duri e puri”, che ha interpretato la volontà delle autorità pubbliche di regolare il sistema delle IG, pur permettendo anche delle deroghe sui disciplinari e sulle normative, in modo che si potesse conciliare la produzione con la tradizione.  Ma con il passare del tempo anche queste posizioni si sono smorzate. La stessa Slow Food, che con la creazione dei Presidi, anni fa, aveva addirittura creato un sistema alternativo a quello previsto dalla normativa europea delle DOP, IGP e STG, oggi ha un atteggiamento meno “integralista”.

Lo studio della Commissione europea pubblicato in  questi giorni, dimostra con i numeri, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, che il sistema produttivo legato al mondo delle IG ha una sua consistenza e soprattutto non è più relegato al bacino del Mediterraneo,  ma fa parte a pieno titolo  della cultura e dell’agricoltura dei 27 Paesi membri della UE.  Se a questi numeri aggiungiamo  le cifre che rappresentano  l’agricoltura biologica e quelle che derivano dagli oltre  400 schemi di certificazioni private che riguardano l’agroalimentare, si può tranquillamente affermare che una parte molto consistente della produzione europea  è davvero sicura.

Se dal punto di vista delle normative interne l’Europa è molto avanti, quello che sicuramente ancora manca per consolidare i prodotti agroalimentari sui mercati internazionali, è una seria ed efficace azione di protezione da parte della stessa   in tutti quei Paesi dove si registra un alto tasso di agro pirateria a scapito proprio di questo settore.

Le IG sono  imprese a tutti gli effetti, ma con la criticità di non operare nei mercati con le stesse opportunità delle grandi Big Food internazionali. Questa è una vera distorsione di mercato, che dovrà quanto prima  essere sanata in sede WTO . La strada intrapresa dalla UE, sugli accordi bilaterali, non risulta ancora efficace. Le IG hanno bisogno di certezze subito, per poter cogliere le occasioni che si stanno presentando anche nei Paesi emergenti, come quelli del BRIC. Occorre un’azione forte e decisa,  per poter definire una volta per tutte il capitolo delle IG negli accordi TRIPs. Ma non solo. Di questo è consapevole anche Paolo De Castro, da sempre difensore delle Indicazioni Geografiche in seno al Parlamento Europeo, che esprime la propria soddisfazione sui risultati e ma  lancia un chiaro monito “  la strada della distintività è una condizione necessaria per rendere competitive le nostre aziende, anche se da sola, non è sufficiente  a sostenere il reddito degli agricoltori”