Quale Formaggio – Le Dop e le Igp italiane sono al palo, com’era prevedibile che sarebbe avvenuto (e in alcun casi com’è bene che sia accaduto) vista la sempre più diffusa pratica gestionale fatta di allargamenti e – spesso – di derive industrialiste. Per capire in che ottica di ribasso qualitativo si siano poste molte realtà Dop, basti pensare che il legame col territorio può essere rappresentato anche solo da un misero 10% di alimentazione locale, che i fermenti industriali sono sempre più diffusi e che i mangimi la fanno da padrone nella dieta degli animali da reddito, a causa del sempre più diffuso utilizzo nel sistema delle Dop di razze iperproduttive.

Ma c’è dell’altro che non va, molto altro, se si pensa ad esempio che da anni esistono prodotti che, nati in montagna, vengono oramai fabbricati anche sulla costa. E formaggi d’alpeggio fatti con latte di vacche allevate in stalla. Ben inteso: stalle a 600 metri di quota, e il gioco è fatto! L’elenco delle furbate e delle angherie alle spalle dei consumatori sarebbe assai più lungo e tremendo. Ma a raccontarne ancora forse ci sarebbe da non crederci, per quanto alcune di esse sono assurde sono.

Con tutto questo fare-di-necessità(industriali)-virtù, e visto poi anche la sempre più severa crisi che colpisce i consumi alimentari, ecco qua che il mercato dei marchi di produzione accusa ora un calo importante, lasciando presagire un futuro in ulteriore discesa.

Ne hanno parlato affranti e preoccupati la scorsa settimana i responsabili della Fondazione Qualivita presentando il loro Rapporto Annuale, e addossando la responsabilità del fenomeno alla crisi degli acquisti. Ma non solo a quella.

«I dati produttivi 2009», ha sottolineato Mauro Rosati, segretario generale della Fondazione Qualivita, «evidenziano uno stallo di fatturato e di produzione che ha come cause la crisi economica ma anche inefficienze strutturali del sistema. I primi dati del 2010 segnano una ripresa, ma permane la necessità di voltare pagina».

Un calo – dicono le cifre – che si è attestato al 2% del fatturato (5,2 miliardi di euro alla produzione; 9,9 miliardi al dettaglio), con un’1,8% di venduto in meno rispetto all’anno precedente; ma a preoccupare è soprattutto un misero 12% del giro d’affari realizzato all’estero. E allora le ricette si sono sprecate: “puntare sull’export”, ovviamente, ma anche “aumentare la massa critica delle aziende produttrici nella filiera consorziandosi”, e poi “creare una strategia di comunicazione più incisiva ed efficace, così da aumentare la percezione nel pubblico del plusvalore che un prodotto certificato possiede”. O meglio possiederebbe.

Secondo De Castro «i dati evidenziano la necessità di avere strumenti che rafforzino i ruoli dei consorzi di tutela, e in questa ottica ci attendiamo novità legislative dal Pacchetto Qualità che sarà presentato l’8 dicembre dal commissario Ue all’Agricoltura Dacian Ciolos, e che possano rilanciare l’intero sistema dei prodotti di qualità».

Se solo si guardasse cosa accade in Francia, dove le aree di produzione vengono ristrette, e l’alimentazione del bestiame diventa più attenta e orientata al vero benessere animale (vengono eliminati alcuni sottoprodotti in un primo momento inseriti), allora potremmo guardare più fiduciosi verso un futuro delle Dop, che – ad oggi – ci lascia sempre più perplessi quando non avversi.