Vale la pena raccontare la storia del Provolone Valpadana DOP, uno dei prodotti alimentari nati grazie all’Unità di Italia; a fine Ottocento infatti molti casari del sud provenienti dalla Campania, dalla Calabria e dalla Puglia, con l’unificazione italiana si trasferirono al nord attratti dalla facilità di reperire latte fresco in grande quantità dalle vacche Frisone. Così le tecniche dei maestri casari meridionali, abili nella lavorazione del caciocavallo e del provolone, formaggi a pasta filata tipici del mezzogiorno, si trasferirono in Val Padana; nacque una fiorente industria casearea del provolone che nel corso degli anni è diventata, insieme a quella del Parmigiano Reggiano DOP e del Grana Padano DOP, un vero simbolo del Made in Italy. Con l’inizio della epopea politica della Lega che ha segnato l’introduzione massiccia nel linguaggio comune del termine Padania, la denominazione Provolone Val Padana DOP – che appunto viene naturalmente associato alla parola Padania – ha perso il suo appeal, soprattutto in quello che è il suo mercato più diretto e naturale, ovvero il Sud. Caso anomalo questo in cui la denominazione non facilita, anzi penalizza un prodotto di alta qualità. Normalmente è il contrario, le denominazioni creano appeal sul consumatore, per l’indotto di storia, cultura e territorio che si portano dietro, ma per questo prodotto invece non succede. Sul mercato quindi si ha una grande richiesta del provolone generico, che oltre a costare meno perché fatto con latte non italiano, non si porta dietro il fardello di una indicazione geografica “poco gradita”. Tutto questo a scapito di chi continua ancora a produrre latte in Italia.

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