In Cina i francesi impiantono vigneti. I puristi gridano allo scandolo. Alla fine chi avrà ragione?


In principio fu Chateau Lafite- Rothschild, scusate se è poco, e la notizia fece scalpore. Uno dei miti dell’enologia mondiale avviava un progetto che prevedeva, tra le altre cose, l’impianto di vigneti in Cina. Il secondo colpo è più recente: Moet Hennesy, luxury brand del marchio LVMH, comunica la decisione di impiantare un vigneto di 66 ettari sempre in Cina per produrre uno “sparkling wine”.

Il clamore travolge tutto il mondo del vino: ma che fanno i francesi, si mettono a produrre Champagne in Cina? Pronta la replica di Moet Chandon (marchio che verrà apposto sulle bollicine con gli occhi a mandorla): non si tratta di Champagne, in quanto questa denominazione resta uso esclusivo delle bottiglie prodotte nell’omonima area della Francia.

La precisazione ovviamente non basta a stemperare lo sdegno dei puristi. Ma come, si fa di tutto per combattere l’omologazione da globalizzazione e questi mi fanno un simil champagne in una sperduta provincia del nordovest cinese? E la tipicizzazione? Il terroir? La storia e la tradizione? Tutto sacrificato sull’altare di quella crudele divinità che qualcuno chiama business?

Tra i più attivi in questa crociata proprio gli esperti italiani del settore che lanciano un monito: mai un Balolo, mai un Blunello! Il Barolo e  il Brunello bisogna venderglielo, ai Cinesi, mica farglielo in casa.

Posizione rispettabilissima ma che merita alcune considerazioni. Il mercato attuale, in Cina, è stimato nell’ordine di 1 miliardo e mezzo di individui. Piuttosto azzardato pensare, una volta che il vino sarà entrato definitivamente nella loro cultura, di rifornirlo con le nostre scorte. Probabilmente, e qui entriamo nel campo delle ipotesi, il ceto alto amerà pasteggiare con Borgogna e Brunello originali. Ma quello medio, e stiamo parlando di centinaia di milioni di consumatori, potrebbe trovare conforto in un vino locale che abbia però l’appeal dell’originale.

Il che significa che tra una decina d’anni i dirigenti Rothschild e i manager della LVMH staranno contando i denari che entrano a fiumi nelle loro casse, grazie alla brillante intuizione di impiantare vigneti “french style” intorno a Pechino. E noi italiani staremo a interrogarci su un’occasione, l’ennesima, persa già in partenza. Magari ci sbagliamo, ma io uno yen sul progetto francese ce lo investirei. E se poi lo moltiplico, brindo con una bottiglia di Champagne. Quello vero, naturalmente.

In collaborazione con Stefano Carboni

 

 


 

La fame nel mondo si contrasta senza OGM

 

La Giornata mondiale dell’alimentazione che si è svolta questa settimana a Roma è stata anche l’occasione per la FAO di promuovere il nuovo approccio  per combattere la fame nel mondo.  “Save and Grow”  è una vera e propria “rivoluzione” o per lo meno rende chiara la questione principale: Salvare e Crescere.  Negli anni 60 le politiche di indirizzo della FAO erano basate essenzialmente  sull’utilizzo in maniera indiscriminata di fertilizzanti,  pesticidi e piante ad alta produttività. Oggi, tirando le somme, ci si è accorti che il costo pagato in termini ambientali è stato alto e non più sostenibile; il lento degrado dei terreni, l’inquinamento delle acque e dell’aria sono solo alcuni dei problemi causati da quelle scellerate politiche che miravano solo a risolvere nell’immediato la fame nel mondo senza pensare al domani. “ Siamo di fronte ad un nuovo paradigma –  afferma  Jacques Diouf , direttore Generale della Fao  –  per crescere, l’agricoltura deve imparare a risparmiare”.  Oggi per valutare la convenienza di un prodotto agricolo occorre pensare prima di tutto alla sua sostenibilità che si esprime attraverso la misura del consumo di acqua, aria, territorio, energie e l’ impatto sulla biodiversità.  Alla base di questo nuovo corso c’è la necessità di istruire milioni di agricoltori attraverso tecniche di coltivazioni più vicine all’ambiente.

Tutto questo può essere interpretato anche come un addio definitivo agli OGM; per anni si è diffusa la convinzione che la fame nel mondo poteva essere contrastata  con le culture geneticamente modificate, oggi la FAO ci dice esattamente il contrario.