Finisce un decennio e ne inizia un altro, non solo sul calendario, ma anche (e soprattutto) nel senso culturale ed economico delle cose. Scorrendo l’appassionata analisi di Frederic Martel (autore di Mainstream, edito da Feltrinelli) sembra di leggere, applicato al campo dei consumi culturali, lo stesso copione del film che racconta come evolverà l’alimentazione. Il giornalista francese, infatti, racconta il nascere di un riflusso rispetto a quel modello americano che negli ultimi venti anni ha pervaso il mondo: la cultura del mainstream, della massificazione, di quel mercato globale per prodotti semplici da capire e consumare, facili da trovare e accessibili economicamente a tutti (dal cinema di Avatar, al food di McDonald’s, alla tv di Lost, alla distribuzione di WalMart e via dicendo).
I primi segnali di decadimento della cultura egemonizzante Made in USA sono iniziati proprio nel settore alimentare intorno all’inizio degli anni 2000. Dopo la sbornia collettiva delle catene fast food e della omogeneizzazione dei sapori e dei brand – dal polo nord al polo sud, si doveva mangiare per forza il solito piatto – è iniziato a passare nella società il concetto della diversificazione alimentare. I precursori di questa controrivoluzione sono stati certamente i prodotti a denominazione di origine. In grande silenzio, senza enfasi eccessive, la riscoperta del valore delle produzioni del territorio rispetto a quelle indifferenziate – e prodotte chissà dove – hanno aperto un varco e hanno iniziato a far vacillare la cultura imperante del piatto globale.
Con il nuovo decennio si apre sicuramente una nuova fase per il cibo, un nuovo mainstream costruito, però, sulla coesistenza delle differenze e non sull’appiattimento: qualità, cultura e territorio dei cibi si doteranno di quegli aspetti – come la facilità di reperimento sugli scaffali e l’accessibilità economica – che hanno fatto grandi i cibi mainstream del passato ventennio.

mauro@maurorosati.it