L’Italia è indubbiamente il Paese della tripla A: Ambiente, Agricoltura e Alimentazione. Per uno strano gioco, la nostra storia, la nostra lingua e la nostra cultura, sembrano averci consegnato in modo pressoché permanente, anche se su un’altra dimensione, quella classificazione che tutte le economie del mondo anelano farsi assegnare dalle Agenzie di rating.

 

Se è vero che l’economia globale è un’arena competitiva, le regole del gioco non sono sempre chiare: se invece di fredde statistiche fossero temi come la qualità (di prodotto, di processo, della vita) ha definire la classifiche, il ruolo e l’impatto dell’Italia in questo contesto sarebbero ben diversi. Forse lo sono in concreto,  quello che a volte manca è il giusto sostegno della comunicazione (storytelling?) e della politica.

 

Alla fine dell’Expo possiamo comunque affermare di aver meritatamente conquistato questa tripla A, sul campo. E questo non solo per il successo organizzativo dell’evento o per aver realizzato un’impresa giudicata impossibile dalla stragrande maggioranza degli osservatori stranieri (che forse tifavano anche contro) fino al giorno prima dell’apertura, ma soprattutto per aver lasciato un segno profondo a livello internazionale su un tema tanto attuale quanto difficile da maneggiare, perché racchiude in sé così tanti valori e significati, sprigionando una varietà di emozioni che va dallo stupore, al piacere passando per la paura: il cibo, ciò che ci nutre.

 

Sposo in pieno le parole del ministro Maurizio Martina  “abbiamo dato vita a una piattaforma unica e originale di confronto su temi importanti, senza ‘ricette’ da imporre, aperta a tutti”, mentre in precedenza i grandi incontri internazionali su questi argomenti erano sempre stati circoscritti ai potenti di turno o agli esperti del settore. Expo è stato diverso: ha partecipato una larga fetta della società globale.

 

La promessa di Expo: il cambiamento


Più volte, nelle settimane passate, mi sono chiesto quale spirito animasse le interminabili ed educate file di persone davanti ai padiglioni o l’entusiasmo dei giovani che a tutti costi volevano visitare l’area espositiva o addirittura tornarci. Non poteva essere solo la curiosità di vedere il ponte in rete del Brasile o la voglia esotica di mangiare un hamburger di zebra, ma qualcosa di più profondo. Forse la necessità di partecipare – anche solo per un momento – al cambiamento.

 

La “promessa” di Expo è quella di un pianeta migliore, di un’alimentazione per tutti, nel rispetto dell’ambiente. Una promessa importante che ognuno ha cercato di onorare almeno con la presenza tangibile, con lo sforzo di capire meglio il problema, anzi i problemi del mondo alimentare e delle sfide che abbiamo di fronte.  E a questa “promessa” nessuno ha voluto mancare.

 

Ma cosa ci lascia in eredità questa esperienza? Senza dubbio consegna a una fetta molto ampia della società italiana una consapevolezza più profonda sul tema alimentare: cittadini, imprese, consumatori, professionisti, studenti sono usciti da Expo in qualche modo “trasformati”.

 

Anche se da sempre siamo coinvolti emotivamente dall’argomento cibo, ora abbiamo avuto modo di "toccare con mano" nella loro complessità questi grandi temi attraverso la partecipazione diretta a una manifestazione in cui si sono susseguiti – nei circa 180 giorni dell’Esposizione universale, 7000 eventi e 620 conferenze.

 

Grazie all’Expo abbiamo potuto vedere da vicino la complessa mappa della società italiana che ruota attorno al mondo del food, con i suoi profili, le sue tribù, le sue organizzazioni, le sue imprese : gli #expoitaliani, le associazioni cultural-gastronomiche, i consorzi di tutela, i mercati rionali, il Km0, gli artigiani, la grande industria alimentare, la ricerca, le organizzazioni agricole e dei consumatori. Un universo variegato in grado di generare una quota significativa della ricchezza del nostro Paese ma soprattutto di edificare un nuovo modello di sviluppo economico – dove agricoltura, alimentazione, ambiente – sono il nostro futuro.

 

La consapevolezza degli #expoitaliani


Ora, il compito della classe politica è quello di non disperdere e dissipare questo patrimonio, questa sensibilità. Sta al Governo e più in generale a tutte le istituzioni tradurre questa consapevolezza in una nuova politica che miri a migliorare la qualità della vita nei suoi molteplici aspetti: economico, ambientale, sociale.

 

Il discorso vale anche sul piano internazionale: dar seguito ai temi di Expo facendo leva sia sulla Carta di Milano che su un’iniziativa concreta e permanente non è solo un’opportunità, ma un dovere, come a più riprese ci ha ricordato Papa Francesco.

 

Inoltre, per rimanere nella dimensione squisitamente economica e pragmatica, ci dobbiamo occupare di questi temi perché nei “luoghi” dove si pensano e si progettano i nuovi modelli di business sono interessati a capire meglio quali saranno, in base alle nuove sensibilità dei consumatori, le metodologie future per produrre il cibo in chiave sostenibile; in questo senso la piattaforma della nostra Esposizione universale – unica e irripetibile – può diventare il veicolo per tutte quelle idee che serviranno a concepire le imprese agroalimentari di domani.

 

Le politiche non si fanno più a compartimenti stagni: abbiamo capito (proprio grazie all’Expo) che la società può e deve avere un ruolo attivo nella riforma del sistema alimentare. I tanti temi che hanno accompagnato il dibattito in questi mesi sono un’eredità che si deve tradurre in politiche condivise dove ognuno è chiamato a fare la sua parte.

 

Da anni, negli Stati Uniti esiste un movimento culturale chiamato “Vote with your fork” che ha come principale esponente lo scrittore Michael Pollan, il quale afferma che proprio attraverso l’acquisto del cibo esprimiamo i nostri valori, ovvero ciò che per noi conta di più. La cosa meravigliosa è che ogni giorno possiamo votare almeno tre volte.

 

Ma restando alla stretta attualità, basti pensare alle proteste di Berlino contro il TTIP – l’accordo di libero scambio fra Europa e Usa (giunto al suo undicesimo round negoziale) – animate soprattutto dalla paura degli ogm difficili da tracciare nel cibo, di un maggiore utilizzo dei pesticidi nell’agricoltura, dalla concentrazione delle produzioni nelle mani di pochi.

 

La percezione che abbiamo avuto anche attraverso Expo, diventa una verità difficilmente contestabile: la politica si fa attraverso il cibo sia su scala globale che locale. L’impegno è allora quello di mettere assieme tutti i pezzi di questo articolato mosaico per continuare il confronto e costruire; è un lavoro faticoso che non darà frutti nel breve periodo, ma, come quasi tutto in Natura, in un orizzonte più lungo.

 

La domanda sorge spontanea: avremo un leader e una classe dirigente capaci di raccogliere questa sfida che guarda lontano, che ha tempi lunghi ma che serve a fare la più importante delle riforme: costruire una società davvero sostenibile? La società delle 3A