Una guerra che rischia seriamente di danneggiare uno dei comparti più importanti del nostro Paese e che per questo non va assolutamente sottovalutata. Ne è la prova il massiccio e generalizzato attacco mediatico nel mercato statunitense al settore dell’olio di oliva italiano, colpito negli ultimi tre mesi da una serie impressionante di notizie “negative”, legate soprattutto a frodi e contraffazioni alimentari. Informazioni che hanno avuto forti ripercussioni di immagine negli Stai Uniti, un mercato di assoluto rilievo per l’export di tutto il made in Italy agroalimentare. L’origine di questa serie spropositata di notizie è il servizic andato in onda lo scorso novembre su SixtyMinutes della CBS (ripreso anche dalla stampa internazionale e nordamericana, compresi Forbes e New York Times) in cui si arrivava alla conclusione improbabile che l’olio d’oliva italiano è nella sua quasi totalità in mano alla mafia.

 

La campagna stampa lanciata negli Stati Uniti sull’olio italiano sembra ricalcare la stessa strategia internazionale che la superpotenza ha adottato nei confronti del petrolio: nel tentativo di incrementare le quote di prodotto nazionale per raggiungere l’autosussistenza, gli Usa hanno infatti cercato di erodere con qualsiasi tattica l’influenza dei Paesi arabi, generando una reazione sconvolgente da parte, per esempio, dell’Arabia Saudita. In campo agroalimentare potrebbe essere lo stesso tipo di volontà a muovere una sorta di “strategia nazionalistica” guidata dal comparto oleario per accrescere le quote di mercato delle aziende statunitensi in un settore che importa circa 300.000 tonnellate di olio d’oliva all’anno. Quale bersaglio migliore del fragile settore dell’olio per far arretrare uno dei maggiori competitor del mondo del food, ovvero l’Italia? A ben guardare questa strategia si inserirebbe alla perfezione nel tipo di pressioni che gli Usa stanno facendo in sede TTIP (Transatlantic Trade andInvestment Partnership, ossia il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) specialmente sui prodotti di qualità certificata a denominazione di origine. A questo potremmo aggiungere anche la volontà di paesi come la Spagna, che cercano di imporre una loro egemonia anche in questo ambito.

 

Come testimonia Marco Oreggia uno dei maggiori esperti italiani del settore, appena rientrato dagli USA «le ripercussioni in termini economici di una campagna mediatica del genere sono forti. Tutto questo a fronte di due fatti oggettivi che rendono intollerabile il conto salato che il nostro Paese dovrà pagare. Il primo riguarda il fatto che l’Italia spende ogni anno soldi pubblici per avere uno dei sistemi di controllo più efficienti che ci siano al mondo. Il secondo, ancor più grave, è che alcune delle società che imbottigliano olio “italiano” di bassa qualità esportandolo in Usa, di italiano sfruttano solo il brand e paradossalmente portano ricchezza nei Paesi dove hanno la sede, scaricando le “scorie”, come gli scandali, tutte sulla bandiera tricolore». Per risollevare l’immagine del nostro Paese ci vorranno questa volta azioni concrete; non basteranno solo le campagne di comunicazione, che sono già in corso grazie al piano straordinario del Governo, ma serviranno impegni seri soprattutto da parte delle aziende.
Ma intanto, viene da chiedersi, il conto del danno subito chi lo paga?