Si chiamano gniummareddi, popizze, ciarimboli, sgagliozze, puccia, strazzata. Impossibile trovarli nei ristoranti stellati della penisola, eppure questi nomi evocano antiche tradizioni gastronomiche italiane, sopravvissute alle mode e al mutare dei gusti, il cui ricordo si perde nella notte dei tempi.

 

Sono i protagonisti dello “Street food” le prelibatezze del cibo italiano di strada disseminate lungo la penisola, un percorso gastronomico alternativo a quello della ristorazione ufficiale, che ha una sua dignità e nobiltà e la cui conoscenza si propaga con il passaparola fra foodies appassionati.

 

Mauro Rosati, esperto di politiche agricole ed agroalimentari, direttore generale della Fondazione Qualivita, che opera per la valorizzazione della produzione agroalimentare italiana, ha lanciato una sorta di Manifesto del cibo di strada italiano che, per definirsi tale, deve: essere collegato al territorio attraverso una tradizione gastronomica con l’utilizzo di materie prime specifiche preferibilmente certificate (DOP, IGP, BIO), essere servito in monoporzione e confezionato in maniera da potersi mangiare ovunque, essere fatto con l’apporto della manualità, essere conveniente rispetto ad un pasto servito, essere elaborato seguendo una ricetta tradizionale o una interpretazione originale e creativa.

 

E, non da ultimo, procurare una sensazione non solo di sazietà ma di benessere. Su questi principi Mauro Rosati in collaborazione con i maggiori esperti del mondo agroalimentare italiano e Italiaonline, l’internet company italiana che include, tra le altre web properties, i portali Libero e Virgilio, ha dato vita a un portale “CiboDiStrada.it” che ha assegnato anche gli Oscar ai migliori cibi di strada italiani.

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