Crescita del 7% per il commercio estero nel 2012. La concorrenza dei Paesi emergenti.

Quando si parla di export agroalimentare italiano gli umori oscillano sempre fra il trionfalismo del successo del Made in Italy in tutti i ristoranti del mondo e le critiche più esasperate per l’incapacità delle imprese ad essere competitive sui mercati stranieri. Mentre crollano i consumi interni alimentari sembrano più incoraggianti i dati sull’export; le recenti stime Istat sul commercio estero del comparto, indicano infatti una crescita nel 2012 di circa il 7% rispetto all’anno precedente, con un valore pari a 24,8 miliardi di euro, si prestano ad una doppia considerazione. Da una parte quelli che esaltano il dato per l’incremento, nonostante la crisi; dall’altra quelli che precisano che la quota del 19% di commercio estero sul totale dei 130 miliardi di valore del nostro agroalimentare, sia ancora troppo bassa se confrontata al comparto manifatturiero dove l’incidenza, dello stesso dato viene stimata al 37%.

La radiografia del sistema agroalimentare si presta sempre ad una doppia interpretazione. Ne abbiamo parlato con Fabrizio De Filippis, Docente di Economia e politica agroalimentare all’Università Roma 3, esperto di politica agraria. Analizzando a fondo i dati del settore, l’agricoltura italiana è in crisi?

«Ma chi ha detto che l’agricoltura italiana è in crisi? 0, meglio, in cosa consiste la "crisi" dell’agricoltura italiana? – afferma De Filippis – L’agricoltura italiana negli ultimi 5 anni, pur tra alti e bassi, è andata in controtendenza, perdendo quote di Pil e di occupati in misura minore di altri settori, enormemente meno dell’industria e del commercio. D’altro canto, l’agricoltura è strutturalmente un settore anti-ciclico, nel senso che la domanda di cibo si può ridurre solo fino a un certo punto, anche nei momenti di crisi; tuttavia in questa crisi anche i consumi alimentari sono caduti, dimostrando che sono ormai altre le categorie di beni la cui spesa per consumi è di fatto incomprimibile. Dunque è più corretto dire che "in crisi", sono

le imprese agricole, alle quali arriva una quota troppo bassa del valore aggiunto prodotto nella complessiva filiera agroalimentare, dal campo alla tavola. E ciò si deve ad una inaccettabile distribuzione del potere contrattuale lungo questa filiera, per la sua "lunghezza" in molti casi eccessiva e per la scarsa trasparenza che ancora la caratterizza in termini di tracciabilità e informazione».

Quali sono i Paesi che ci fanno più concorrenza? «L’Italia ha perso quote di mercato in campo agroalimentare nei confronti dei nuovi grandi esportatori: Cina, Brasile, Argentina; ma ha perso meno di altri Paesi europei e molto poco nel Made in Italy, dove la nostra competitività ha una naturale difesa nell’origine del prodotto, sempre che noi stessi ne capiamo l’inestimabile valore – continua De Filippis – Abbiamo un portafoglio straordinario di prodotti di qualità che potrebbero reggere qualunque sfida. Il nostro problema è riuscire a tutelarli e portarli in modo efficiente sui mercati più dinamici, nuovi e lontani».

Che contributo potrà dare il commercio mondiale dell’agroalimentare al rilancio del nostro Paese? « Sicuramente l’agroalimentare potrà dare un forte contributo – conclude De Filippis – Ma dovremmo essere capaci di nuove azioni "strategiche" dove la parte pubblica dovrà fare la sua parte. La componente estera della domanda è stata fondamentale per la tenuta di ampi pezzi dell’economia italiana durante la crisi. Siccome per il Made in Italy agroalimentare si può prevedere una domanda in crescita anche negli anni a venire, il contributo può essere rilevante anche nella prospettiva della ripresa. Per aiutare il processo servono politiche di supporto alla presenza delle nostre imprese sui mercati esteri e alla loro capacità di fare sistema, ma anche una forte azione a livello di Unione Europea sul fronte della etichettatura e della tutela delle denominazioni di origine».

Inoltre servono politiche capaci a far crescere la produzione agricola delle commodities, la cui mancanza ci fa sempre più dipendere da altri Paesi; tale situazione si traduce inevitabilmente in un aumento di costi che ritroviamo sullo scontrino del supermercato.