Confcommercio: la commistione di Paesi diversi in cucina non favorisce la qualità.

 

Nel periodo in cui il Made in Italy enogastronomico gode della sua massima reputazione grazie ai confortanti dati dell’export agroalimentare e la presenza costante di programmi culinari in tv, la Confcommercio evidenzia nel suo Rapporto sulle economie territoriali, la chiusura di circa 9000 ristoranti solo nel 2011. Un dato preoccupante che associato a quello della Coldiretti che plaude alle Sagre paesane piene di gente porta in evidenza una delle criticità del settore come ci afferma Carlo Cambi autore de «Il Mangiarozzo», anti-guida alle trattorie d’Italia: la banalizzazione attraverso le sagre paesane, per le quali sarebbe indispensabile arrivare ad una certificazione di qualità in modo da separare quella storiche, identitarie dalla paccottiglia gastronomica.
Che la cucina e i prodotti agroalimentari, e quindi la ristorazione come summa dei due elementi, rappresentano una delle principali attrazioni italiane per i turisti di tutto il mondo. Non solo noi attiriamo con questi plus il turista gourmet ma, nell’immaginario collettivo mondiale, il nostro Paese rappresenta una sorta di terra promessa della buona tavola. Un valore aggiunto che andrebbe di più salvaguardato essendo un asset rilevante del sistema Paese. Se analizziamo attentamente però quanta Italia è rimasta veramente in cucina ci renderemo conto che in realtà il problema è molto più profondo di quello che ci possiamo immaginare. Aprendo la porta di un ristorante oggi si sentono parlare tutte le lingue del mondo. Gli egiziani forse sono diventati i miglior pizzaioli italiani, i rumeni e gli albanesi sono la maggioranza dei camerieri che servono ai tavoli. Ma anche le materie prime spesso non sono italiane ed in alternativa gli asterischi del surgelato sono diventati una costante ripetitiva nei menù. Abbiamo assistito negli ultimi anni all’affermazione di talentuosissimi chef stranieri nei più prestigiosi ristoranti italiani; la loro cucina è elegantissima ed equilibrata frutto di studio e perfezionismo. «Ritengo però – e non me ne vogliano i miei amici chef commenta Francesca Riganati responsabile della formazione del Gambero Rosso – che il dna dei sapori che per nascita possiedono alcuni cuochi italiani renda lo loro cucina insuperabile e più emozionale».
Una cucina che perde occupazione, qualità ma anche primati. In questi anni altri Paesi come la Spagna ad esempio, hanno fatto della ristorazione autoctona un fiore all occhiello e un elemento fortemente identificativo. Noi, che partivamo con un netto vantaggio, in questa gara continuiamo a perdere posizioni. Occorre recuperare credibilità e bisogna farlo attraverso un recupero di passione e di metodo ma anche di professionalità. Per questo osservo con estrema soddisfazione la nascita di alcune scuole di cucina di alto livello, come quella di Niko Romito in Abruzzo e Coquis, l’Ateneo creato dai fratelli Troiani a Roma, ci confida Stefano Carboni giornalista ed esperto del settore, che sembrano destinate a formare una nuova pattuglia di professionisti che potranno portare la ristorazione italiana ai livelli che le competono.
Torna prepotente il richiamo della cucina di tradizione, di territorio, legata alle stagioni e all’agricoltura di specialità e di qualità. Ma questa cucina per essere al meglio ha bisogno di una trasmissione del sapere e di una rispondenza identitaria tra il cibo e chi lo agisce, tra la ricetta e l’ingrediente. Purtroppo per i costi crescenti, ma anche per un deperimento dell’ istruzione professionale degli alberghieri, si assiste ad una cucina di tradizione realizzata da cucinieri che nulla hanno a che vedere con la nostra identità gastronomica, che manipolano materie prime che poco hanno a che spartire con i territori agricoli di qualità. Tutto questo si traduce in una parola: valore.
La perdita di questo valore non riguarda più solo i critici gastronomici o gli chef. Riguarda tutti: dalla filiera agricola fino al consumatore. In questa logica anche l’iniziativa sulla gastronomia italiana organizzata da «Vedrò» dal 26 al 29 agosto alla Centrale di Fies di Drò, dove un gruppo di lavoro molto eterogeneo composto dal ministro Catania, lo chef Massimo Bottura, il direttore editoriale di Slow Food Marco Bolasco, l’esperto di marketing Fulvio Zendrini e molti altri, cercherà di dare risposte concrete.