Ormai tutti ne parlano. Perfino il presidente del Consiglio Matteo Renzi le usa come emblema della produttività italiana; è successo a Napoli qualche giorno fa, quando il capo del governo ha messo in competizione la Mozzarella di Bufala Campana DOP e l’Iphone.

 

Per anni bistrattate, ritenute poco più che orpelli e velatamente osteggiate sia dalla GDO – fino ai primi anni 2000 – che dalle grandi industrie alimentari, le Denominazioni di Origine sono ora oggetto di grande attenzione dal punto di vista commerciale, considerate veri e propri modelli di sviluppo economico. Perché questo cambiamento? La risposta è semplice: le Denominazioni di Origine esprimono fiducia e la fiducia è il più grande valore che un prodotto possa comunicare.

 

Lo attesta anche la ricerca internazionale “ The most influential brands in Italia ” condotta da Ipsos con l’obiettivo di comprendere l’impatto che i marchi hanno nella nostra vita quotidiana e nella nostra esperienza del mondo. Le indagini – condotte su un campione di 2000 persone analizzando 100 marchi – hanno prodotto una classifica che piazza al sesto posto il Parmigiano-Reggiano DOP, primo tra i 22 brand del settore food.

 

Ma la maggiore sorpresa che emerge da questo ranking è che il Parmigiano-Reggiano è il primo marchio italiano in assoluto. La particolarità è dovuta principalmente al fatto che questo sia un brand atipico rispetto agli altri, ovvero una Denominazione di Origine. Il Parmigiano-Reggiano che supera Nutella o Mulino Bianco ci fa capire cosa possono esprimere le DO italiane nel loro insieme, anche in termini economici. Non solo. Un “marchio pubblico” che sorpassa i brand privati in una classifica di influenza è un’anomalia tutta italiana che indica quanto sia profonda la nostra relazione con i prodotti a Indicazione Geografica, frutto di conoscenze e capacità dei singoli territori.

 

“I motivi per cui il Parmigiano Reggiano si trova così in alto nella classifica – spiega Andrea Loreti, responsabile della ricerca Ipsos – sono essenzialmente due: la fiducia che si ha nei confronti di questo prodotto e quella che definirei come responsabilità sociale del brand, in altre parole la capacità di rappresentare anche l’orgoglio italiano”.

“Questo risultato è il frutto di un lavoro fatto negli anni sul rapporto diretto con il consumatore  – sottolinea il direttore generale del Consorzio Riccardo Deserti – e  può insegnare ad altre eccellenze italiane – dop e non dop – che proprio nella distintività  della qualità e delle radici territoriali e culturali trovano la loro leva di marketing più coerente e non usurpabile”.

 

Nelle rilevazioni Ipsos emerge un ulteriore aspetto significativo: gli unici marchi in grado di surclassare il food rientrano nel settore delle ICT (Information and Communications Technology). Sette dei primi dieci, infatti, sono rappresentanti del mondo digitale, ‘in nome’ di aziende estere. Volendo affidarci all’ordine di realtà creato da questa particolare classifica, ritengo possibile trarre una riflessione sul rilancio del modello Italia e sul ruolo del food come driver, anche internazionale.

 

“La classifica racconta la propria verità (parziale) – spiega Alberto Mattiacci , Direttore scientifico di Eurispes – di una popolazione che sperimenta la nuova estensione antropologica del sé, offerta dalla digitalizzazione dell’esperienza quotidiana, e che al contempo è attenta a immettere salubrità, sicurezza, gusto e, perché no, italianità, nel proprio io fisico. Sono i prodromi di una nuova identità, quelli che questa classifica esprime: un io che gioca contemporaneamente la doppia partita dell’identità aperta al mondo – con il digitale – e più salda nelle radici locali –con uno dei formaggi principi del Belpaese”.

 

Se i marchi del mondo digitale e del settore agroalimentare sono quelli in grado di avere maggiore influenza, maggiore impatto sulla vita delle persone, uno dei compiti degli stakeholder del settore agroalimentare è quello di capire quale sia la maniera migliore di collegarli, di metterli a sistema con l’obiettivo di una crescita del Paese. Per fare questo infatti servono due cose : programmare una strategia di lungo periodo che comprenda in primis una vera alleanza fra DO ed i grandi marchi privati e un progetto serio per mettere  a sistema quel legame food-mondo digitale. Solo così, parafrasando il Premier, il nostro patrimonio agroalimentare, con il know how che si porta dietro, potrà essere, in tutto il mondo, l’alter ego italiano dell’Iphone americano.