C’è una parola magica che potrebbe essere più efficace di qualsiasi norma, progetto, iniziativa a favore del clima e del benessere umano. Una parola che appartiene a tutti i cittadini, ma che è scomparsa dal nostro vocabolario con il cambiamento dei consumi degli ultimi cinquanta anni. È una parola che prima non veniva neanche pronunciata perché era la prassi, il comportamento obbligato all’interno dei nostri consumi alimentari. Una parola che potrebbe riportare al centro della nostra dieta tanti cibi scomparsi dalla tavola per ragioni imprecisate. Un parola capace di mettere in connessione ciò che mangiamo, il modo in cui viviamo e il pianeta che abitiamo: la stagionalità.

 

“Nel Medioevo e nel Rinascimento – ha affermato Alfonso Pascale, saggista esperto di cibo e ruralità – offrire cibi “fuori stagione” significava fare sfoggio di potere, ricchezza, lusso. Era come dissacrare una restrizione popolare e mostrare di poterselo permettere. E osservare la stagionalità era, invece, un’abitudine dei poveri: non per virtù ma perché costretti. In passato, però, prendersi il gusto di infrangere una regola presupponeva una profonda conoscenza dei ritmi stagionali. Altrimenti non aveva senso. Oggi non è più così: si mangiano frutti in ogni stagione, non già per assaporare il piacere del proibito, ma solo per ignoranza. Quello che è importante è essere consapevoli quando vogliamo rispettare un’antica regola e quando invece la vogliamo trasgredire”.

 

Food Miles

Per comprendere quali siano realmente gli effetti sistemici di tutti quei cibi fuori stagione – quasi sempre provenienti dall’altro capo del mondo – che consumiamo abitualmente scegliendo tra i banchi della Grande Distribuzione Organizzata, nel 1992, il professore Tim Lang, della City University di Londra, ha messo a punto un modo per calcolare la quantità di anidride carbonica nascosta dietro il trasporto di una cassetta di frutta o di verdura esotica. Nasce così il concetto di Food Miles, cioè di distanze percorse dal cibo, che con buona approssimazione ci rende consapevoli del fatto che, solo dal punto di vista ambientale, consumare pomodori importati produce il 25% di C02 in più, mentre se parliamo di formaggio la percentuale di C02 sale al 46%. Questi esempi, così come quello relativo alle coltivazioni in serra che forzano l’equilibri della biodiversità, ci dicono quanto pesi l’importazione dei cibi sull’inquinamento prodotto per necessità alimentari, che tutti gli anni vede ogni italiano accollarsi 1800 Kg di emissioni di C02.

 

Ma la sostenibilità ambientale è solo una delle cinque buone ragioni per cui dovremmo scegliere i prodotti di stagione, soprattutto frutta e verdura.  Il secondo e il terzo aspetto riguardano la qualità degli alimenti e il benessere di noi consumatori, che spesso dovremmo chiederci più seriamente che cosa mangiamo. Quale sapore dovrebbe avere la frutta che viene colta semi-acerba, stoccata, raffreddata e trasportata a migliaia di km di distanza? E quali valori nutrizionali? Senza contare un quarto aspetto direttamente collegabile a questi ultimi: l’uso di trattamenti chimici su molte coltivazioni agricole massive o l’uso di piante geneticamente modificate (OGM), ad esempio, aprono una questione sulla salute su cui è necessario porre molta attenzione. Infine, e non per importanza, c’è anche una questione economica. Spesso e volentieri infatti finiamo per mangiare alimenti di scarsa qualità, inquinando l’ambiente ad alimentando un processo basato sul profitto di grandi soggetti lontani a discapito delle imprese dei nostri territori.

 

Il modello dei G.A.S.

E’ proprio dalle contraddizioni tra produzione e consumo messe in luce dal concetto di Food Miles che si sono riaffermati negli ultimi anni concetti sintetizzabili con la formula del Km0, ma anche con quella dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), nuclei di persone che decidono di incontrarsi per acquistare “all’ingrosso” prodotti alimentari direttamente da agricoltori del territorio, riconosciuti in Italia anche da uno specifico comma della legge finanziaria del 2008.

In Italia i GAS nascono nel 1994 da un gruppo pioniere e si sviluppano su concetti tanto semplici quanto difficili da attuare: attenzione al prezzo del cibo, alla sua qualità e a come è stato prodotto, “con quella S finale – spiegano gli autori di L’altra Spesa, uno dei testi di riferimento – che segna l’inizio di una nuova azione collettiva che con la spesa promuove un altro modello di sviluppo”.

In oltre venti anni questi gruppi sono riusciti a scrollarsi di dosso l’etichetta di “idealisti” coinvolgendo stabilmente circa mezzo milione di italiani nella Rete GAS (secondo Coldiretti e Censis gli italiani che fanno la spesa regolarmente con i GAS sono 2,7 milioni) con un giro d’affari da 90 milioni di euro l’anno. Numeri importanti, che sommati a quelli della vendita diretta, hanno riaffermato in maniera significativa, nella cultura e nella pratica, il concetto di stagionalità collegato ad un modello di agricoltura territoriale sostenibile. Cifre che hanno affermato anche che è possibile concretizzare un sistema distributivo alternativo spingendo anche la GDO ad allinearsi ai valori che contraddistinguono le pratiche dei GAS, come l’origine certa e verificabile di un prodotto, il risparmio di energia e di emissioni, e la qualità dei cibi freschi di stagione.

 

Moderna cultura del cibo

Per affermare nuovi valori è necessaria un’azione coerente e continuata in grado di incidere ad un livello culturale profondo, un’azione positiva che sia l’esatto contrario di quella negativa attuata dall’opinione pubblica nel caso dei presunti rischi derivanti dalla carne rossa lavorata e che serva a riaffermare un rapporto più corretto con l’agricoltura primaria, il vero ago della bilancia per uno sviluppo sostenibile sotto gli aspetti dell’ambiente, della salute e dell’economia.

 

Se riuscissimo a riallineare i consumi alimentari con la produzione territoriale e con la sua stagionalità, riusciremmo a fare passi in avanti su due dei maggiori obiettivi della Carta di Milano: la sostenibilità e lo spreco alimentare. Un grande aiuto in questo senso potrebbe arrivare dal modello delle Indicazioni Geografiche italiane. Molte delle nostre grandi eccellenze IG hanno, infatti, un disciplinare che ne regola le fasi di produzione secondo le stagioni e i ritmi naturali di uno specifico territorio, abbinando qualità, salubrità e basso impatto ambientale.

 

Ri-orientare i nostri consumi verso i prodotti di stagione può avere anche un effetto concreto sulla costruzione di un modello agricolo più efficiente e al contempo meno impattante e ci permette inoltre di godere di una maggiore qualità della vita, di sostenere gli agricoltori delle nostre campagne e di tutelare l’ecosistema che ci circonda.  Così come l’aver imparato a fare la raccolta differenziata dei rifiuti contribuisce a ridurre l’impatto sull’ambiente, imparare a consumare cibi di stagione potrebbe farci fare notevoli passi in avanti nella difficile ricerca di un equilibrio sostenibile nel settore agricolo.