La migliore sintesi del vertice Fao della scorsa settimana è nel titolo dell’Economist “Se le parole fossero cibo, non ci sarebbero più affamati” e sottolinea la discrepanza tra l’enorme visibilità e risonanza e la scarsa incisività dell’incontro. Dalla montagna di fogli e dichiarazioni emergono due aspetti: primo, gran parte delle problematiche relative a cibo, risorse idriche ed energetiche, clima e ambiente ruotano attorno all’agricoltura. Secondo, il problema degli approvvigionamenti alimentari non appartiene esclusivamente ai Paesi in via di sviluppo, ma riguarderà nell’imminente futuro anche i Paesi più sviluppati. Due le tendenze. Da una parte c’è la propensione dei grandi Paesi a ridurre le importazioni di cibo e provvedere da soli ai loro fabbisogni attraverso l’acquisto di terreni; lo sta facendo già gran parte dei Paesi Arabi. Dall’altra, c’è una crisi economica globale che ha avuto un effetto domino su tutti i settori, compreso il mondo agricolo. Che il problema sia più serio del previsto si era capito allo scorso G8 con la mobilitazione di altri soggetti internazionali: la sola Fao non è sufficiente ad arginare le crescenti necessità in termini di sicurezza alimentare, e la conferma di questo limite si apprezza nelle parole del direttore generale al termine del vertice: “La dichiarazione adottata non contiene obiettivi misurabili né termini specifici entro cui essere realizzati”. L’incontro è servito a delineare uno scenario su cui confrontarsi, suddiviso in tre livelli di responsabilità: il primo è quello dei consumatori dei Paesi sviluppati e le loro politiche di acquisto sui prodotti alimentari; il secondo è quello delle imprese con il loro modello di sviluppo e soprattutto delle loro pratiche agricole, il terzo è quello della politica che dovrebbe fare da collante e delineare le rotte da seguire. Per i primi due livelli già molto è stato fatto, mentre per la politica ho molte riserve.L’agricoltura non è una Cenerentola ma il settore primario e non a caso si chiama così.

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