Negli ultimi decenni il cibo ha perso il suo valore etico, è stato trasformato in merce nelle mani dei mercati globali, da produrre a basso prezzo, qualità mediocre e in maniera massiva per la società dei consumatori, per ottimizzare produttività e guadagni. È nato così un vero e proprio paradosso che vede il cibo, di natura alimento foriero di vive tradizioni, storia, culture e con un solido attaccamento al territorio, come un mero bene di consumo assoggettato alla logica omologante del profitto e dei vincoli di proprietà.

In Europa, in particolare, la creazione del Mercato unico nel 1986 ha reso urgente prendere provvedimenti normativi di tutela a beneficio di tutti quei prodotti alimentari che non godevano della proprietà industriale, in quanto frutto della storia e della tradizione di comunità rurali, ma che risultavano essenziali per l’integrità e lo sviluppo economico, sociale e culturale dell’ambiente in cui erano insediati. Allo scopo di evitare che fossero ingiustamente abbandonati alla concorrenza sleale o, peggio, che smarrissero la loro identità una volta sottratti al proprio territorio di appartenenza, l’Unione Europea ha emanato appositi regolamenti istituendo i marchi DOP, IGP e STG. Così facendo, essa ha dato vita a uno dei primi modelli al mondo impegnati attivamente nella regolamentazione e nella protezione dei prodotti agroalimentari di qualità nella complessa realtà dei mercati internazionali.

L’obiettivo delle Indicazioni Geografiche (IG) è quello di associare il nome di un territorio a un prodotto agricolo o agroalimentare, che trae dall’origine geografica una o più delle proprie caratteristiche intrinseche o estrinseche. L’istituzionalizzazione delle IG rimarca che le peculiarità, le qualità e la tipicità del prodotto sono legate a un ambiente specifico e che il prodotto designato con un logo comunitario è un bene pubblico e perciò meritevole di riconoscimento, protezione e valorizzazione.
Tuttavia, ciò che maggiormente distingue e nobilita le denominazioni di origine rispetto ad altri marchi collettivi è la loro valenza non solo economica, ma anche culturale. In primo luogo, esse rappresentano un punto di forza e un vantaggio competitivo importante per i produttori dell’Unione Europea; ma soprattutto, le DOP e IGP, in quanto “parte integrante del patrimonio culturale e gastronomico vivo” dell’Unione, demercificano, rilocalizzano e rivendicano il cibo come nutrimento vivo parte della nostra identità, dal complesso valore esistenziale e socio-culturale indispensabile alla vita.

La filiera delle Indicazioni Geografiche rappresenta dunque un sistema virtuoso di crescita e di sviluppo sostenibile, dalle molteplici qualità: genera un prodotto dalle caratteristiche non riproducibili e non delocalizzabili, dall’impatto estremamente positivo sull’economia del territorio e sul sistema produttivo; tutela l’ambiente e la biodiversità; sostiene la coesione sociale dell’intera comunità rurale e delle imprese; garantisce ai consumatori tracciabilità e sicurezza alimentare dei prodotti.

Mediante questo modello l’Unione Europea, rimettendo al centro il cibo come valore etico, ha vigorosamente dimostrato di “rispettare la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica” e di “vigilare sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo”, proprio come sancito nel Trattato di Lisbona. Inoltre, è stata in grado di fronteggiare la sfida del terzo millennio, lanciata anche dalla Carta di Milano: “considerare il cibo un patrimonio culturale e in quanto tale difenderlo da contraffazioni e frodi, proteggerlo da inganni e pratiche commerciali scorrette, valorizzarne origine e originalità con processi normativi trasparenti”.