In lista di attesa c’è anche la Lucanica di Picerno, dopo l’ultimo via libera di Bruxelles alla Lenticchia di Altamura. Perché l’Italia, oltre che paese di poeti e navigatori, è anche il regno del mangiar bene. Tanto più nel 2018, anno del cibo italiano (dopo il 2016 anno nazionale dei cammini e il 2017 dei borghi), così come hanno deciso i ministeri delle Politiche agricole e dei Beni culturali. Chi, in Italia, produce alimenti che riscuotono il favore del mercato, punta a farsi riconoscere dall’Europa anche il marchio di qualità. Dop, Igp o Stg che sia. Per questo l’Italia è il primo paese per numero di riconoscimenti assegnati dall’Unione europea. Nella fotografia fatta dall’Istat al 31 dicembre 2015 erano 278 i prodotti agroalimentari di qualità, 9 in più rispetto al 2014. A conferma di una tendenza più che decennale: dal 2005 al 2015 le specialità Dop (Denominazione di origine protetta), Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (specialità tradizionale garantita) con certificazione Ue sono quasi raddoppiate (+80,5%), da 154 a 278. Oggi, con l’ultima Dop ufficializzata lo scorso 19 dicembre alla Lenticchia di Altamura, si è arrivati a quota 295. E per sfondare la cifra tonda di 300 manca poco, visto che sono 8 (oltre alla Salsiccia Lucanica di Picerno Igp anche le Mele del Trentino Igp, il Cioccolato di Modica Igp, il Marrone di Serino Igp, la Pitina Igp, l’Olio di Puglia Igp, la Mozzarella di Gioia del Colle Dop e l’ultima arrivata, la Provola dei Nebrodi Dop) i prodotti italiani in attesa del via libera europeo. E non finisce qui, perché altre domande sono ancora all’esame della prima scrematura da parte del ministero delle Politiche agricole.

 

Il pomodoro di Napoli made in Puglia

Tra queste, il pomodoro pelato di Napoli Igp che con la Mozzarella di Gioia del Colle Dop negli ultimi mesi ha fatto litigare Puglia e Campania. E pomodoro e mozzarella, si sa, sono gli ingredienti principe della pizza, simbolo della cucina italiana nel mondo. Le prime scintille risalgono allo scorso luglio, con la presentazione al ministero delle Politiche agricole della domanda di registrazione del Pomodoro pelato di Napoli Igp. Di Napoli, ma in realtà coltivato quasi esclusivamente (95%) nel Tavoliere delle Puglie, in provincia di Foggia: e il restante 5% del cosiddetto pomodoro lungo proviene da Molise e Basilicata. Un prodotto, quindi, quasi del tutto pugliese etichettato, però, come «di Napoli» perché trasformato in Campania.

 

La guerra delle mozzarelle

Ma la vera battaglia è scoppiata un mese dopo, a fine agosto, quando dalla Puglia è arrivata la richiesta del riconoscimento della Dop per la Mozzarella di Gioia del Colle. A cui si è opposto formalmente il Consorzio della Mozzarella di bufala campana Dop. Proprio nei giorni scorsi il ministero delle Politiche agricole ha di fatto respinto le contestazioni arrivate e ha avviato il percorso per l’invio della domanda a Bruxelles. Ma il Consorzio della Mozzarella di bufala, secondo cui «i consumatori andrebbero in confusione se in commercio trovassero una nuova mozzarella Dop», sebbene quella campana sia notoriamente di bufala e quella pugliese di latte vaccino — conosciuta come treccia o provolina — ha annunciato ricorso al Tar. Chissà, allora, cosa succederà nella percezione dei consumatori quando sul mercato arriveranno le Mele del Trentino Igp (in attesa di riconoscimento) dopo che dal 2003 ci sono già le Mele della Val di Non Dop e dal 2005 le Mele dell’Alto Adige Igp.

 

Fatturato solo per i big

La verità è che come la Mozzarella campana vuole difendere le sue quote di mercato da quella pugliese, così le Mele del Trentino sperano di poter rosicchiare qualcosa a quelle dell’Alto Adige. Più in generale, l’agroalimentare italiano punta sempre più a farsi riconoscere la qualità. Ma se la bontà, in Italia, può essere di molti prodotti, finanche di tutti, le vendite continuano a essere di pochi: osservando il valore alla produzione dei singoli prodotti Dop o Igp emerge che quello dei primi 10 (5,01 miliardi) è pari al 79% del totale di tutti i prodotti certificati (6,35 miliardi, dati Rapporto Qualivita 2016). Come dire, sostanzialmente, che solo i riconoscimenti a Grana Padano (Dop), Parmigiano-Reggiano (Dop), Prosciutto di Parma (Dop), Aceto Balsamico di Modena (Igp), Mozzarella di Bufala Campana (Dop), Mortadella Bologna (Igp), Gorgonzola (Dop), Prosciutto di San Daniele (Dop), Pecorino romano (Dop), Bresaola della Valtellina (Igp), e qualche altro come la Mela Alto Adige (Igp), hanno ragione di esistere. Dall’inizio degli anni 2000 la percentuale si è assottigliata di circa 6 punti. Ma non basta. E lo sa anche il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina che da tempo ripete che «se oggi le prime 10 Dop e Igp sviluppano l’80% del fatturato complessivo, occorre far salire la lista ad almeno 20 prodotti in tre anni». Ma perché questa corsa alla certificazione di qualità se poi la crescita delle quote di mercato si realizza solo per pochi? «L’Europa — spiega Giorgio Mercuri, presidente di Alleanza cooperative agroalimentari — ci ha dato lo strumento importante delle denominazioni con lo scopo di poter garantire il consumatore sulla provenienza e tutelare il prodotto perché non venga imitato. Ma tutelare dalla concorrenza garantisce anche un’opportunità commerciale, grazie al marchio che viene visto dai consumatori come garanzia, che si amplifica se si fa promozione. E così i fondi che l’Europa mette a disposizione per promuovere le specialità fanno gola a molti». E i produttori, quindi, sono mossi dalla speranza di accaparrarsi parte dello stanziamento Ue, una torta che va da 100 a 200 milioni di euro all’anno.

 

La torta dei fondi Ue

Nel 2016 la dotazione finanziaria complessiva è stata di 113 milioni di euro (dai 97 inizialmente previsti), quota che nel 2017 è passata a oltre 140 milioni (90 milioni per i programmi semplici, presentati dai proponenti di un solo stato membro; 43 milioni per i programmi multipli; 9 milioni per azioni condotte dalla Commissione). Lo stanziamento è destinato ad aumentare progressivamente fino ai 200 milioni di euro di budget massimo nel 2019. Le aziende italiane, nel 2016, sono riuscite ad accaparrarsi una fetta della torta pari al 20% del totale, 23,5 milioni da dividere tra 10 proponenti. Tra questi il finanziamento più alto è andato al Consorzio per la tutela d’Asti e al Consorzio Grana Padano, circa 4,7 milioni per entrambi. Il meccanismo del finanziamento, però, prevede una quota aggiuntiva messa dal consorzio di 1,2 milioni, pari al 20%. E anche per questo, alla fine, per i piccoli consorzi la possibilità di accaparrarsi i finanziamenti è bassa: non hanno le risorse per copartecipare.

 

Il flop del 2017

Nel 2017, poi, degli 88 milioni già assegnati dall’Europa, all’Italia ne arriveranno solo 3: la feta greca, le olive spagnole e il burro francese hanno battuto il Prosecco di Valdobbiadene, il Pecorino Toscano e il Pomodoro di San Marzano (i più conosciuti dei 30 programmi italiani bocciati). Si sono salvati soltanto il Distretto agroalimentare di qualità della Valtellina, il Consorzio di tutela del formaggio Piave Dop e la Mortadella di Bologna, su un totale di 52 programmi europei promossi. Con il fatturato appannaggio dei big, i fondi europei che gli italiani cominciano ad accaparrarsi con più difficoltà, e alcuni prodotti certificati più piccoli che dopo aver rincorso per anni il riconoscimento non si sono neanche dotati di un sito (la Burrata di Andria, Igp da dicembre 2016), alla maggior parte delle produzioni di qualità italiane potrebbe rimanere, in concreto, solo il marchio.

Michelangelo Borrillo